10 Dicembre 2021 | Comunicazione
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Contributo estratto dal libro “Public speaking e presentazioni efficaci. Organizzare speech di successo grazie a parole, emozioni e comunicazione non verbale” scritto da Nicola Bolzan.
È un’affermazione forte, provocatoria, quella che ho scelto come titolo per questo contributo, ma credo profondamente opportuno dare la giusta attenzione e il giusto valore a ciò che è sulla bocca di tutti ogni giorno e, proprio per questo, spesso, dato per scontato.
Una delle motivazioni per le quali l’importanza delle parole viene di sovente sottovalutata è, soprattutto negli ultimi anni, la diffusione di stravaganti interpretazioni della teoria elaborata dallo psicologo statunitense Albert Mehrabian nel 1967[1]. Attraverso i suoi studi, Mehrabian ha definito i tre ambiti della comunicazione e affermato che il processo comunicativo dipende per il 55% da elementi non verbali, per il 38% da elementi paraverbali e per il 7% da aspetti verbali. Queste informazioni si sono velocemente diffuse negli ambienti formativi e sono state divulgate, senza il minimo approfondimento, da falsi guru e santoni della comunicazione che hanno dato a questo 7% il connotato di una verità assoluta. Lo stesso Mehrabian, in una e-mail personale dell’ottobre 2002 a Max Atkinson, riprodotta nel suo libro “Lend Me Your Ears”[2], ha dichiarato: “Sono ovviamente a disagio per le citazioni errate del mio lavoro. Fin dall’inizio, ho cercato di dare alla gente i giusti limiti delle mie scoperte. Sfortunatamente, il campo dei sedicenti “consulenti d’immagine aziendale” o “consulenti di leadership” ha numerosi professionisti con pochissima esperienza psicologica“.
La necessità di questa precisazione nasce dal fatto che i risultati della sua ricerca, come da egli confermato più volte, sono applicabili solamente nel caso in cui l’oratore pronunci una sola parola, il suo tono di voce sia in contraddizione con il significato della parola stessa e il giudizio dell’interlocutore sia relativo solo ai sentimenti di chi parla.
In poche parole, questo 7% è un mito da sfatare.
A questo proposito, le ultime ricerche neuro scientifiche stanno iniziando a rivelare la reale importanza delle parole non solo come strumento di comunicazione. Nel loro esperimento di neuroscienze, “Do Words Hurt?”[3], Maria Richter e gli scienziati che hanno collaborato, hanno monitorato le risposte del cervello dei soggetti a parole negative verbalizzate e/o immaginate. Durante questo processo, hanno scoperto che parole caratterizzate da un’accezione negativa aumentano l’elaborazione implicita (IMP) nella corteccia cingolata anteriore subgenuale (sACC), rilasciando stress e ormoni che inducono ansia nei soggetti. In definitiva, parole con significato negativo, siano esse pronunciate, ascoltate o pensate, non solo causano stress situazionale, ma contribuiscono a generare ansia a lungo termine. Alla luce di queste evidenze, una domanda sorge spontanea:
Nel loro libro scritto insieme, “Words Can Change Your Brain”[4], il dottor Andrew Newberg, neuroscienziato della Thomas Jefferson University, e Mark Robert Waldman, esperto di comunicazione, affermano che “una singola parola ha il potere di influenzare l’espressione dei geni che regolano lo stress fisico ed emotivo“. Inoltre, secondo questi due esperti, esercitarsi nell’ascolto, nell’elaborazione e nella ristrutturazione del proprio linguaggio attraverso l’uso di parole con significato maggiormente positivo, può letteralmente cambiare la propria realtà.
Le parole hanno quindi un enorme potere. Il loro significato cristallizza le percezioni che modellano le nostre credenze[5], guidano il nostro comportamento e, infine, creano il nostro mondo.
Il loro potere nasce dalle risposte emotive che attribuiamo loro quando le leggiamo, parliamo o sentiamo, e dalle immagini che tramite esse creiamo nella nostra mente.
Basti pensare al significato emotivo che possiamo conferire alla parola “fuoco” immaginando questi tre diversi scenari: durante una serata invernale di fronte al caminetto, nel mezzo di un dialogo acceso con un collega di lavoro, o in un teatro interamente costruito in legno e affollato di persone. In tutti i casi otteniamo reazioni emotive ed energetiche potenti, in differente misura e che evocano in noi, attraverso le parole, realtà, emozioni e reazioni molto diverse.
Le parole non sono quindi solo uno strumento di comunicazione: attraverso un linguaggio gentile e consapevole possiamo cambiare il senso e l’impatto di una presentazione, possiamo contribuire a creare immagini e stato emotivi positivi dentro di noi e, attraverso la nostra comunicazione, anche in chi ci ascolta.
L’utilizzo consapevole del linguaggio ci dona il potere di conoscerci affondo, di costruire relazioni di valore e di elaborare il nostro pensiero.
Ed è proprio questa la chiave di volta.
La parola Logos[6] in greco significa sia pensiero che linguaggio, distillando l’interpretazione filosofica di questa unione secondo la quale le parole non sono strumenti per pensare, ma sono condizioni essenziali affinché esista il pensiero stesso.
Pensateci, riuscite a immaginare qualcosa che non siete in grado di definire con una parola? È impossibile.
Ed è proprio questo il potere più grande della parola: allargare gli orizzonti di pensiero, sviluppare e immaginare qualcosa di nuovo, plasmare.
Ecco il linguaggio come strumento di creazione, del quale ognuno di noi è portatore, custode e responsabile: la consapevolezza che una sola parola può distruggere o ideare, può sotterrare o sollevare, può oscurare o illuminare il dialogo, cioè il rapporto di scambio di pensieri che è alla base della vita stessa e dell’intera società.
E se è da parole violente che una società violenta nasce, è dalla cura delle sue parole che essa può guarire; ed è questa, oggi più che mai, la grande sfida e la grande responsabilità di ognuno di noi.
Buona giornata,
Michele Prete
[1] Mehrabian, A., & Ferris, S. R. – Inference of attitudes from nonverbal communication in two channels – Journal of Consulting Psychology, 1967
[2] Max Atkinson – Lend Me Your Ears: All You Need to Know about Making Speeches and Presentations – Vermilion, 2004
[3] Maria Richterab; JudithEckc; ThomasStraubec; Wolfgang H.R.Miltnerc; Thomas Weissc – Do words hurt? Brain activation during the processing of pain-related words – International Association for the Study of Pain – 2009
[4] Mark Robert Waldman; Andrew Newberg – Words Can Change Your Brain: 12 Conversation Strategies to Build Trust, Resolve Conflict, and Increase Intimacy – Penguin Books Ltd – 2014
[5] Bruce H. Lipton – The Biology of Belief: Unleashing the Power of Consciousness, Matter & Miracles – Hay House UK Ltd – 2015
[6] LOGOS. – Voce greca, λόγος, il cui significato oscilla tra “ragione”, “discorso” (interiore ed esteriore) e “parola”. In Giovanni, I,1, la Volgata traduce Verbum, che la Chiesa latina mantenne nel linguaggio teologico a indicare la seconda persona della Trinità, il Verbo. Difatti Logos, come la sua traduzione Verbum, esprimono una concezione complessa della filosofia greca, e, attraverso l’ebraismo ellenistico, della teologia cristiana, che assunse svolgimenti e indirizzi svariati ed è intraducibile nelle nostre lingue. Il più antico pensiero greco, incline a non distinguere l’aspetto verbale dall’aspetto razionale della verità, designa col termine di logos la ragione determinante il mondo e la legge in cui essa si esprime: tale è il significato del logos di Eraclito, principio eterno della molteplicità e del suo essenziale contrasto. Nella sofistica, la tendenza a svalutare l’oggettività delle ragioni che nella discussione si oppongono, e a interpretare la convinzione come semplice persuasione operata dall’eloquenza, fa sì che nel logos venga a prevalere l’aspetto verbale, che assorbe in sé l’altro senza eliminarlo: tale è il logos che Protagora sa render “vittorioso” anche quando è “perdente”, e quello di cui Gorgia esalta la mirabile potenza. La reazione al verbalismo sofistico, condotta da Socrate, Platone e Aristotele, rivendica il valore razionale del logos: di qui la grandiosa costruzione teorica delle sue leggi, che da esso appunto trae il nome di “logica”, per quanto quest’ultimo termine s’imponga soltanto in età un po’ più tarda, per designare ciò che Platone chiamava “dialettica” e Aristotele “analitica”. Nella sua forma originaria il logos torna, nello stoicismo, rinnovante la concezione eraclitea, a significare la divina ragione che, compenetrando di sé il mondo, lo anima e lo dirige secondo il suo perfetto destino (di qui il concetto di λόγος σπερματικός, “logo spermatico” o “seminale”, cioè generatore della realtà). Nell’età moderna il concetto specifico di logos perde d’importanza, trasferendosi ad altri termini i problemi che vi erano impliciti: solo da poco si è ricominciato ad adoperarlo in senso propriamente filosofico (p. es. da E. Husserl e da G. Gentile, il cui Sistema di logica è imperniato sulla distinzione del logo astratto, dal “logo concreto”) nel suo più classico valore di elemento o momento razionale dello spirito, tema della logica. – Leone Tondelli; Goffredo Coppola; Guido Calogero; – Enciclopedia Italiana (1934) – Treccani
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